giovedì 14 febbraio 2013

"Tano D’Amico, dietro il visibile" di Angelo Mastrandrea

Conosco Tano D’Amico
fin dal primo giorno in
cui misi piede al Manifesto.
Insieme abbiamo anche fatto
qualche lavoro – lui ama
ricordare un reportage
all’interno dell’Ospedale
psichiatrico giudiziario di
Reggio Emilia, noi due e sister
Helen Prejean, la suora
americana che aveva ispirato
un celebre film, Dead man
walking – e altri ancora ne
abbiamo in programma. È da
oltre un decennio che mi
chiedo da dove abbia ricavato
quel tocco che rende
inconfondibile ogni sua
fotografia, e quali siano i suoi
riferimenti culturali, prima ancora che politici. Scatti che, in
molti casi, ci balzano alla mente naturalmente quando parliamo
di alcuni eventi. Come si fa, rievocando l’omicidio di Giorgiana
Masi – la studentessa uccisa a Roma il 12 maggio del ’77
durante una manifestazione indetta dai radicali per festeggiare i
tre anni dal referendum sull’aborto –, a non pensare a
quell’immagine-simbolo che immortala due ragazze, le
“sorelle”, che corrono disperate verso Ponte Garibaldi?
Un suo libro, ora, finalmente riesce a chiarirmi le idee. “Le
fotografie che si reggono sull’avvenimento non fanno memoria,
fanno dimenticare quell’avvenimento. Lo rendono scontato, banale,
inevitabile, dimenticabile”, scrive in Anima e memoria. Il legame
imprendibile tra storia e fotografia (Roma, Postcart, pp. 168, euro
12,50). Il punto decisivo è dunque – mi pare di capire – quello di
considerare l’immagine un punto di partenza e non di arrivo: il
contrario del reality show cui ci tocca ogni giorno assistere. Non la
foto che mostra tutto senza lasciare alcuno spazio
all’immaginazione, dunque, ma la foto che va oltre la realtà, capace
di evocare il non visibile che si nasconde dietro il visibile.
Ci sono dei forti riferimenti pittorici, nelle immagini di Tano
D’Amico: il “realismo poetico” degli impressionisti della Comune
di Parigi, il Rinascimento italiano. E poi la filosofia: Roland Barthes
che diceva “cose bellissime rispetto alle immagini del suo tempo:
scorrono un fiume di immagini, molte urlano, stigmatizzano,
nessuna fa pensare. Nessuna si fa amare e ricordare. Nessuna va al
di là della lettera. Non c’è astrazione, come per gli scarponi di Van
Gogh che fanno pensare al cammino dell’umanità”. A condire il
tutto, la scelta di campo, insomma la Politica: dalla parte dei
“cattivi”, i perdenti della Storia, eterni antagonisti del potere e
della sua eterna voglia di controllare la parola e l’immagine.
Da qui la critica, aspra, alla cultura fotografica che oggi va per la
maggiore, dove tutto va mostrato per non rivelare nulla di ciò
che si trova sotto la superficie, dove la ricerca di una presunta
oggettività serve solo a eliminare l’occhio del fotografo e a
falsarne irrimediabilmente la poesia, rendendole neutre, passive,
consumabili. Con il risultato di avere delle immagini brutte,
come in nessun’altra epoca è accaduto, foto che scivolano via
senza stratificare nulla nella memoria di chi le guarda.
Non risparmia nemmeno la sinistra giornalistica, il fotografo di
Filicudi. La considera subalterna a un pensiero unico
dell’immagine che non fa altro che schiacciarla. Alla fine, scrive
sulla Moleskine che lo accompagna ovunque, gli stessi movimenti
sociali si sono distrutti con le proprie immagini,
autorappresentandosi esattamente come voleva il Potere,
appiattendosi su una rappresentazione della realtà “così come
appare” e non riuscendo a capire che ogni gruppo sociale ha
bisogno di proprie immagini e non di immagini costruite da altri.
“Senza immagini nuove il movimento non vive”, sostiene Tano
D’Amico, che di suo non ha mai immortalato la morte o la violenza,
ma ha sempre cercato la poesia, il lampo di umanità che spunta
fuori anche laddove non te lo aspetteresti. E l’unico modo per
evitare che la foto diventi neutra, piatta, si stereotipizzi come
accaduto, ad esempio, al G8 di Genova, “un colossale, acritico,
morboso safari fotografico” dove le immagini – anche quelle dei
mediattivisti – sono servite solo a essere utilizzate nei verbali di
polizia e nei processi. “I miei scatti non sono mai finiti in un
tribunale”, dice con orgoglio. Nonostante – e questo libro lo
testimonia – in questi ultimi quarant’anni davanti ai suoi occhi, e
alla sua macchina fotografica, sia passato di tutto.


L'articolo si trova sul n°6 del settimanale "Rassegna Sindacale", la storica rivista dalla Cgil ed è acquistabile online.

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